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“Rebecca Olsen: Standing on the Edge”

Pietro Gaglianò

Immagina un tempio, o una biblioteca, o un laboratorio: un luogo in cui lo scibile umano è stato

immagazzinato, impilato su mensole, raccolto in scatole, sempre accuratamente catalogato. Un

tale palazzo della conoscenza universale esiste in forme diverse in ogni tradizione letteraria, in

ogni narrazione delle civiltà umane dalla loro origine o al loro inevitabile crepuscolo e,

incidentalmente, anche in alcuni fatti storici: dalla biblica Torre di Babele alla storica Biblioteca di

Alessandria, dagli eurocentrici musei e dalle enciclopedie dell’era moderna fino al Palazzo

enciclopedico, il progetto di Marino Auriti che ha ispirato la Biennale veneziana curata da

Massimiliano Gioni nel 2013 1 . Tutte queste visioni sono destinate a un tragico epilogo, per mano

divina o per la furia delle fiamme, perché i musei e le enciclopedie sono ancora una forma di

potere e non di emancipazione (fortunatamente fallibili), o solo perché, semplicemente, le utopie

non hanno letteralmente un luogo fisico in cui esistere 2 .

Questa è una delle ragioni per cui abbiamo bisogno dell’arte e val la pena di citare ancora una

volta le parole di Robert Filliou: “l'art est ce qui rend la vie plus intéressante que l'art”. Perché un

luogo del genere possiamo immaginarlo almeno in una sfera delle umane possibilità: l’arte

appunto. E gli artisti lo hanno sempre cercato questo luogo, lo hanno immaginato ed evocato,

cercando ogni volta un sistema inedito per dargli forma e organizzarlo. Ma persino nella letteraria

Biblioteca di Babele di Borges si scopre “alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello

stesso disordine” 3 , e anche gli universi digitali hanno un’assenza di confini solo illusoria, come

prova a dirci l’artista francese Camille Henrot nel suo Grosse fatigue 4 , dove dimostra il fallimento

di ogni tassonomia, di ogni classificazione enciclopedica, di ogni tentativo di incasellare “tutto’ in

un‘unico posto”.

Poi immagina la possibilità di convivere con la certezza di questo limite. Entrare in contatto con il

lavoro artistico di Rebecca Olsen è quanto di più vicino a questa esperienza mi sia capitato di

vivere: qualcosa che includa il desiderio umano della conoscenza totale e la comprensione, ancora

più umana, della sua impossibilità. Questa consapevolezza per Olsen è l’origine di una continua

riarticolazione del desiderio: il suo personale palazzo del sapere è un’ammissione del limite che,

però non ferma (anzi, stimola) i suoi progetti di architettura concettuali e fantastiche. Tutti i

supporti nel suo spazio mentale, le scatole, gli scaffali sono dotati di ruote o di carrucole; questo

permette agli argomenti, alle discipline, alle singole parole e a ogni pacchetto di conoscenza di

muoversi in qualsiasi direzione, per creare o ripristinare connessioni con ogni altro argomento,

rivelando nessi insospettabili, facilitando e al tempo stesso complicando il modo in cui possiamo

comprendere queste cose. Nello studio di Rebecca (e spesso anche nelle sue mostre) le opere

sono pensate per potersi muovere: si spostano e si ricollocano come libri. L’artista sfrutta la

versatilità della composizione modulare dell’opera per permettere a sé stessa (o all’opera, come

1 L’italo-statunitense Marino Auriti nel 1955 depositò all’ufficio brevetti il progetto per un museo che, dovendo

ospitare tutto il sapere dell’umanità, avrebbe 136 espandendosi su oltre 16 isolati di Washington.

2 “Utopia” è infatti prima di tutto un regno immaginario creato da Tommaso Moro nel 1516, un neologismo composto

dalla parole greche “οὐ” (non) e “τόπος” (luogo): letteralmente un “luogo che non esiste”.

3 Jorge Luis Borges, La biblioteca de Babel, 1941.

4 Grosse fatigue è un film del 2013. L’artista scrive: “nel momento stesso in cui aspiro a rendere il mondo abitabile

mediante una totalizzazione soggettiva, sono anche consapevole della follia di questo tentativo e dei suoi limiti

intrinseci".

se l’opera avesse anche una sua vita propria) di scambiare alcune sue parti, di sostituirle,

eliminarle, lasciare che altre parti, inedite, prendano il posto delle prime. Ma la versione definitiva

dell’opera rimane sempre soltanto un miraggio, l’artista continua a tornare sulla superficie e sulle

forme per analizzare l’equilibrio e aggiungere una campitura di colore o per incidere una

misteriosa parola, per dare con la varietà degli strumenti e dei materiali che usa, una nuova

texture al suo lavoro.

In questo modo Olsen dispiega la sua professione di dubbio in forma di manifesto poetico. Il suo

lavoro si può descrivere un esercizio gnostico, ispirato dalla volontà di comprensione del mondo:

un mondo che include aspetti della neurologia e la fisica del moto ondoso, gli effetti del

cambiamento climatico e i sistemi urbanistici del Novecento. È l’artista ad ammetterlo in prima

persona quando dichiara che la sua ricerca è mossa da due forze opposte. Da un lato c’è la

curiosità e il desiderio di conoscenza, dall’altro la certezza che questa conoscenza non è sempre

conseguibile: “ecco perché faccio arte”, perché questo è il suo linguaggio, e questo è lo spazio in

cui le cose, anche oscure e remote, diventano attingibili. La visione estetica di Rebecca trova

riflessi nella sua personalità, nel modo di organizzare il suo lavoro (dentro e fuori dallo studio

d’artista), ed è un tratto specifico del suo fare arte: in ogni progetto osa una sperimentazione dei

medium e dei materiali che si spinge a volte fino all’eresia rispetto ai canoni del linguaggio, e

all’irriverenza rispetto alle gerarchie che, oziosamente, sovrintendono al modo in cui gli artisti

dovrebbero guardare, osservare chi li ha preceduti.

Proviamo quindi a inoltrarci con lei in un luogo che è come un castello in cui i destini dei suoi

abitanti si incrociano (per citare un bellissimo racconto dello scrittore italiano Italo Calvino 5 ) e

mutano via via che le tessere utilizzate per illustrarli si sovrappongono, intervenendo non solo

sull’alea del futuro ma mettendo in discussione anche quello che pensiamo di sapere sul passato.

Nel lavoro di Olsen ci sono forme ricorrenti che corrispondono a veri e propri archetipi, e si

ripresentano, a volte nascostamente, tessendo una tela che sottende una straordinaria unità

concettuale. Alcuni archetipi sono mutuati da patrimoni ancestrali, altri sono la sommatoria

postmoderna di più elementi congiunti tra loro. L’iceberg, per esempio, è un simbolo

contemporaneo della crisi ambientale, spesso utilizzato per dimostrare la totale interdipendenza

di tutte le parti del pianeta. Nelle opere di Rebecca diventa anche una rappresentazione parallela

del cervello: l’uno e l’altro, infatti, hanno una porzione sommersa e non misurabile che ne

condiziona il comportamento, e ne costituisce anche la parte più ampia. Ma, ancora prima di

questi elementi figurativi, nelle opere di Olsen dominano le forme geometriche primarie: il

quadrato, il triangolo il cerchio (e, nel suo sviluppo tridimensionale, la sfera). I loro contorni

servono a inscrivere moltitudini, un’umanità varia, planimetrie metropolitane, viaggi sulla luna ed

esplorazioni sul fondo all’oceano. Nella griglia così creata, e nella sua continua violazione,

convergono tutti i monumenti incompiuti della storia dell’umanità, tutte le catastrofi evitate e

quelle avvenute, tutte le nostalgie di pace o di bellezza, tutte le utopie e anche i sogni realizzati: è

tutto qui, “ogni luogo, ogni tempo, tutto in una volta sola”. Però anche moltiplicato, espanso,

innestato in un groviglio.

Completamente avvinti l’uno all’altro, la sfera poetica e l’aspetto processuale della ricerca di Olsen

si sintetizzano in forme originali dove l’artista non manca di riconoscere i legami con una vasta

genealogia di artisti, e soprattutto di artiste, che dal XX secolo hanno sfidato le convenzioni, sia

5 The Castle of Crossed Destinies, pubblicato nel 1969, dove i personaggi raccontano le proprie storie usando le carte

dei Tarocchi.

quelle formali sedimentate nei linguaggi e nei processi dell’arte, sia quelle dei costrutti sociali.

Questa serie di riferimenti (che pur senza avere padri fondatori include anche i genitori di

Rebecca, entrambi artisti) si ramifica inevitabilmente nelle regioni del femminismo. È connessa ai

linguaggi militanti di una delle migliori stagioni dell’arte statunitense (gli anni Settanta di Judy

Chicago o di Martha Rosler) e si coniuga anche alle artiste italiane che nello stesso periodo

rompevano gli argini della struttura patriarcale dell’arte, proponendo sistemi di scrittura e fonetici

del tutto inediti, per generare lingue in cui non fossero state pronunciate parole di odio e di

sopraffazione - basti pensare al lavoro di autrici come Maria Lai, Tomaso Binga o Ketty La Rocca. In

altre direzioni si scorgono altre radici remote, che ci portano ad autrici che non sono facilmente

riconducibili alla catalogazione dei movimenti e dei tempi della storiografia dell’arte: outsiders

come Hilma af Klint o Anni Albers o, in una condivisione di territori più poetici che formali, la

produzione matura di Meret Oppenheim. Il senso di Rebecca per la geometria richiama, in chi

come chi scrive ha una continua frequentazione della danza, anche una certa tensione minimalista

(pensando più a Lucinda Childs che non a Donald Judd, e nel dominio della visualità sicuramente

più alle eterodossie di Eva Hesse che non al rigore dei suoi colleghi uomini). È qualcosa che si

esprime nella ripetizione del modulo, modellato più come un canto, una vibrazione sonora, una

coreografia delle forme semplici.

Alla confluenza di tutto questo, al netto di ogni modo con cui Olsen osserva altri artisti, è

importante ricordare il rigore di una ricerca autonoma, ben riconoscibile nella disinvoltura dei

processi, nella sensibilità contemporanea spinta fino a livelli quasi nevralgici. Un frase di Rebecca

sul suo continuo abitare “sul limite di una scogliera” 6 rivela più di ogni altra descrizione teorica

questo sentimento di connessione, dolente e sovraeccitata, che si espande in un lavoro

avvolgente. Io, come chiunque altro, credo, ho solo due possibilità davanti a questo magmatico

universo di connessioni, in perenne trasformazione, in continuo movimento: o agire come il

presuntuoso visitatore che non vorrei essere, animato di una volontà analitica che non ha a che

fare con gli orizzonti dell’arte, oppure abbandonarci al senso di possibile, all’eventualità che in

questo labirinto una strada mi porti, per caso, per sbaglio, per combinazione, a un pezzetto di

consapevolezza che altrimenti non avrei mai saputo raggiungere. Immagina di trovarti nel mezzo

di tutto questo, ora.

6 Da una conversazione con l’artista.