Rebecca Olsen’s

Unaccountable Cityscapes 

Written by Buzz Spector, Translated to Italian by Pietro Gagliano’

“I ricordi vengono continuamente revisionati e rilavorati… la loro essenza, infatti, è la ricategorizzazione”

― Oliver Sacks, The River of Consciousness

“Le immagini della memoria, quando vengono fissate in parole, sono come cancellate”.

― Italo Calvino, Le città invisibili


Questa è una riflessione in tre parti. Primo: un incontro che ho avuto, nel luglio 2017, con l’arte di Rebecca Olsen in una chiesetta sconsacrata del XIV secolo, nei pressi della sua casa di famiglia sulle colline toscane.  Secondo: una meditazione sulla transizione dalle forme piane alle architetture nella sua pittura. Terzo: la mia introduzione, scritta nel febbraio 2021, per l’ultimo lavoro di Olsen, il video in stop motion River of Consciousness.

Per dieci anni ho insegnato alla Sam Fox School of Design and Visual Arts della Washington University di St. Louis; tra i momenti migliori di questo periodo ci sono un pario di sessioni estive, di un mese ciascuna, trascorse a Firenze, in un programma di studi all’estero, nel luglio 2016 e l’anno seguente. La Sam Fox School non aveva un proprio campus ma gli studenti di arte e di architettura potevano godere delle strutture prese in affitto presso la Santa Reparata International School of Art (SRISA), diretta da Rebecca Olsen. Ho quindi avuto per anni rapporti con Rebecca in questo ruolo e, di conseguenza, i nostri contatti erano più di natura amministrativa che artistica. Ma Rebecca, figlia dell’artista e incisore, Dennis Olsen che molti anni prima aveva cofondato la SRISA, era in realtà anche lei un’artista. Infatti, nel suo appartamento di Firenze e nel suo ufficio di direttrice negli spazi di via San Gallo, c’erano molti interessanti dipinti con astrazioni geometriche. Ogni estate Rebecca e la sua famiglia offrivano un pranzo per gli studenti e i docenti della Sam Fox School nella loro casa, una villa nei dintorni di Ortignano Raggiolo o, come la chiama Rebecca, Giogalto, a circa 90 minuti di viaggio da Firenze. Persi l’occasione nel 2016 e Rebecca insistette perché vi andassi nel 2017; così, con un cospicuo numero di studenti, colleghi e abitanti dei dintorni, potei godere del cibo, del vino e della natura lussureggiante della piena estate.  

Un conto è dare un’occhiata a delle opere nel mezzo di un ritrovo sociale, completamente diverso è poterle osservare in contesti che favoriscono una precisa attenzione per le loro qualità materiali e concettuali. Con questa premessa io pongo la data del mio vero incontro con l’arte di Rebecca al momento del mio ingresso nella cappella senza nome in pietra, a pochi passi dalla sua villa. Dopo il pranzo, Rebecca mi guidò all’ingresso della cappella dove rimase di lato per lasciarmi entrare. I muri di questa piccola architettura erano fatti con blocchi tagliati a mano di marna grigia e pietra calcarea color sabbia, così come il piccolo podio su un lato. Le pietre e le tegole del tetto erano vecchie ma la porta e un paio di elementi decorativi erano contemporanei, realizzati dall’artista Peter Rockwell, uno dei vicini di Rebecca a Giogalto. La luce del sole entrava attraverso la porta aperta e il rosone di Rockwell rischiarava l’ambiente ma, non essendoci nessun’altra finestra, ebbi bisogno di qualche momento prima di abituare la vista. Una serie di otto dipinti grigi correva lungo le tre pareti, tutti di formato quadrato ma di tre differenti dimensioni, per lo più di 50 cm di lato, più uno di 100 e un altro di 150.

Il podio di pietra, a circa metà della parete sinistra, aveva nel mezzo una vasca rivelando così la funzione originaria di fonte battesimale e bacile per l’acqua santa. Il quadro di 100 cm di lato era appeso al di sopra del  podio I suoi grigi erano più freddi di quelli delle mura di pietra. La superficie accidentata di questo lavoro era attraversata in vari punti da linee tracciate a sgraffito, evocando una spoglia idea di paesaggio, ma anche i segni che un incisore potrebbe fare su una lastra.

Rebecca confermò dall’inizio che nessuno di questi dipinti aveva un titolo. Tutt’ora si riferisce all’insieme chiamandoli i dipinti della cappella, identificandoli così con il luogo più che con ogni altra specificità concettuale, compositiva o formale delle opere stesse. Io capisco l’esitazione dell’artista a dare un nome a questi lavori. I titoli creano sempre una differenziazione tra le opere, oppure evocano associazioni di memorie o storie. I dipinti della cappella, dunque, non hanno bisogno di questo tipo di differenziazione; offrono collettivamente un’esperienza percettiva all’osservatore, con la storia e l’ambientazione date dal luogo. Il corso della pittura astratta nel XX secolo è guidata da un’ideale assenza di specificità dei luoghi; l’aggettivo astratto, d’altra parte, descrive cose lontane dalla realtà concreta, da situazioni reali o dalla specificità di oggetti ordinari. Nella fresca aria della cappella i dipinti erano assolutamente connessi al luogo grazie alle loro dimensioni e a ogni altra componente materiale. Anche altri dipinti di Rebecca, installati in quel luogo, avrebbero fatto deviare l’esperienza lontano dalla connessione con associazioni più mondane con l’apparente neutralità delle pareti della galleria. 

Nei circa venti minuti trascorsi nella cappella, un senso di benessere spirituale sorse dentro di me, una gratitudine per il fatto di trovarmi nella situazione create dall’architettura e dalle opere che offrivano simultaneamente una testimonianza della mano della forza d’animo dell’autrice e la loro coerenza con il luogo in cui erano esposte. Posso condividere qualcosa di questo sentimento citando alcune righe del poeta Robert Duncan: “Spesso mi sono concesso di tornare su un prato / come se fosse una scena creata dalla mente,  / che non è mia, ma e’ un posto creato / che è mio, essendo così vicino al cuore…”.

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Sul suo sito web Rebecca propone questa descrizioni dei suoi interessi: “La realizzazione di segni e linee sono generalmente più importanti per me del colore e io sono solita usare una tavolozza ristretta. Traggo la mia ispirazione dalla città, sia come simbolo del potenziale umano sia per l’infinito sviluppo che potrebbe alla fine travolgere la terra”. Nel tempo Rebecca si è rivolta sempre più alle condizioni spaziali e strutturali dell’ambiente urbano, nei suoi dipinti, nelle sue sculture, nei disegni, nelle stampe, nella fotografia e più di recente nel video stop-motion. Il rapporto controverso di Rebecca con le città ha dato ottimi risultati nel suo studio. Le città non sono il suo solo soggetto, ma alcuni termini per descrivere le condizioni urbane (mura, strade, vuoto, velocità, segnali e verticalità si possono tranquillamente applicare alla sua produzione artistica. 

Nella sua Obsessive Series, che include disegni su carta e tavola, lo spazio collassa in reticoli di inchiostro, in matrici ancora più complesse dove la specificità dell’architettura si estende verso formazioni cristalline, diagrammi elettrici e cartografie immaginarie, tutte mescolate assieme in quelle che sembrano mappe. Nessuna struttura urbana reale è davvero così densa come in questi disegni, ma che dire delle città immaginarie? Ne “Le città invisibili” di Italo Calvino lo scrittore definisce undici categorie di polis letterarie: città e memoria, città e desideri, città e segni, città trading, città e occhi, città e nomi, città e la morte, città e il cielo, città continue e città nascoste. Alcune categorie appaiono più frequentemente di altre ma the textual vantage points ci porta in tutte loro. Come evidenzia Calvino, nel libro “Le città, come i sogni, sono fatte di desideri e paure, anche se il corso del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le loro prospettive ingannevoli e ogni cosa nasconde qualcos’altro”. Io potrei prendere in prestito le parole di Calvino per descrivere i paesaggi urbani di Rebecca, senza dover fare forzature per trovare corrispondenze con quello che vediamo.

Similmente nei dipinti della Wall Series in campi di colore si situano riferimenti architettonici fatti di linee, frammenti di testi in collage  e forme ricavate usando vari moduli e strumenti. L’osservatore ha l’impressione di città che sorgono da strane nebbie atmosferiche. Altre precedenti opere di pittura o di incisione, in particolare dalla ricca serie Bad Prints, Part 2, danno l’idea di Rebecca come di una sorta di osservatrice della città i cui strumenti per misurare distanze e angoli sono usati tanto per gli aspetti esistenziali quanto per quelli fisici della forma urbana. La varietà di linguaggi usati da Rebecca con le loro carateristiche operano nello tempo e nello spazio portando uno sguardo sulla citta’ come un pensiero che emerge in ogni atto e cosa. 

 Il mio riferimento alla osservatrice della citta’ non deve però far passare in secondo piano l’aspetto cartografico, così presente in molti lavori. Le citazioni cartografiche nel lavoro di Rebecca spesso corrispondono a frammenti del vero aspetto di Firenze o di altre città della colline toscani, ma senza i nomi delle strade o degli edifici queste mappe parziali descrivono strade impossibili da seguire. C’è una destinazione finale che spero di eseguire: nei diversi trattamenti che Rebecca fa dello spazio urbano c’è a anche un scintillo delle molte scale di tempo della città, simultaneamente antiche e contemporanee. Lavori di pennello, incisioni, superfice viscosi sono tutti strumenti per le superfici create da Rebecca, lavorate fino a quando la texture è quasi sparita, per portarci verso un passato che paradossalmente diventa presente nel momento scandito dal tempo dell’opera. 

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La passione per il materiale che anima l’arte di Rebecca ha preso una nuova forma nella sua impresa più recente: la video animazione in stop-motion River of Consciousness, realizzato per l’inaugurazione della sua mostra virtuale alla Webster University’s Cecille R. Hunt Gallery (St. Louis, Missouri), nel febbraio 2021. La mostra, originariamente prevista per novembre 2020, era stata cancellata a causa delle restrizioni dei viaggi per la pandemia. Rebecca aveva quindi imparato da sé a usare la fotografia in stop-motion, con alcune applicazioni (Garage Band il suono; imovie per l’editing) e in collaborazione con l’artista Justin Randolph Thompson, per realizzare questo video digitale.  

In quattro stop-motion una miriade di piccole sculture dipinte appaiono sullo schermo, partendo con un singolo oggetto e poi moltiplicandosi. Rebecca avrebbe voluto che l’installazione potesse venire percorsa dai visitatori autorizzandoli anche a spostare i singoli elementi. Essendo questa interazione impossibile, ha usato il video per riproporre tali movimenti. Durante le riprese Rebecca mette queste sculture di edifici su piccoli piedistalli o altro, creando ampie schiere sul pavimento. A mano a mano che aumenta il numero delle sculture, gli edifici scompaiono e riappaiono in una rapida aggregazione. In altri momenti la videocamera si muove lungo alcune porzioni dell’installazione e si vede la stessa artista, ripresa mentre sposta i vari elementi. Rebecca ha anche filmato i suoi dipinti e disegni, proiettando poi queste riprese sulle schiere delle sculture. Tutto questo mente la seducente partitura elettronica di aggiunge ritmo all’esperienza visiva Justin Randolph Thompson. 

Un’altra sezione di River of Consciousness ha una struttura più documentaria. Questa parte mostra Rebecca mente descrive il suo stato d’animo mentre, nel suo studio, ascolta l’audiolibro dell’omonima opera di Oliver Sacks che, testualmente, ha ispirato il titolo del video. Rebecca parla dal momento rivelazione avuta durante l’ascolto: che I ricordi sono livelli, stratificazioni di sollecitazioni sensoriali che creano un’impressione di continuità. La descrizione che  Sacks dà degli strati della memoria echeggia con il metodo di stratificazione così importante per l’arte di Rebecca, e nel video lei stessa propone un paragone tra la sua pratica il modo in cui i livelli di spazio, distanza e punto di vista creano una città. Il video aggiunge la dimensione del tempo a tale esperienza.

Infine, River of Consciousness è quasi una sintesi di ogni aspetto dell’identità artistica di Rebecca. Nel video lei stessa precisa come realizzare quest’opera abbia condotto il suo lavoro in “una nuova fase di evoluzione”; La fine del video lascia allo spettatore la domanda su quale nuove viste portera’ la sua ricerca, in quali spazi nel tempo e nella mente. Siamo tutti cittadini di questa stessa città.

Rebecca Olsen’s

Unaccountable Cityscapes 

Written by Buzz Spector, Translated to Italian by Pietro Gagliano’

“Memories are continually worked over and revised . . . their essence, indeed, IS recategorization.”

― Oliver Sacks, The River of Consciousness

“Memory's images, once they are fixed in words, are erased.”

― Italo Calvino, Invisible Cities

This reflection is in three parts. First, an encounter I had, in July 2017, with the art of Rebecca Olsen, in the desacralized 14th century chapel nearby her family’s house in the Tuscan hills. Second, a meditation on the transition from flat planes to architectonics in her paintings over time, and third, my on screen introduction, in February 2021, to River of Consciousness, Olsen’s latest work in stop-action video.

During the ten years I taught studios in art and architecture at the Sam Fox School of Design and Visual Arts at Washington University in St. Louis, a highlight was the pair of one month’s summer teaching at the University’s Study Abroad Program in Florence, Italy, first in July 2016 then again the following year. The Sam Fox School did not have its own campus, but art and architecture students made good use of facilities leased from the Santa Reparata International School of Art (SRISA), where Rebecca Olsen was the director. I’d known Rebecca in this role for a number of years, but our contact was more administrative than artistic. The daughter of a studio printmaker, Dennis Olsen, who many years before cofounded SRISA, Rebecca was an artist in her own right. Indeed, I’d seen several commendable geometric abstract paintings of hers on the walls of her apartment in Florence as well as in SRISA’s main administrative building on the Via San Gallo. Every summer Rebecca and her family hosted a luncheon for Sam fox School students and faculty at the Olsen family residence, a villa on the outskirts of Ortignano Raggiolo or, as Rebecca calls it, Giogalto, perhaps a 90-minute drive from the city. I had missed the occasion in 2016. Rebecca was insistent that I come for a visit in 2017, and among a substantial number of students, faculty, and village neighbors I enjoyed the food, wine, and gardens in full summer leaf. 

It is one thing to have glanced at artworks in the midst of social gatherings, but quite another to encounter them in settings that welcome closer attention to their conceptual and material attributes. With this in mind, I date my introduction to Rebecca’s art to the experience of entering the nameless stone chapel a short walk from her villa. After the repast, Rebecca led me to the chapel entrance, where she stepped aside to let me enter. The walls of this smallish structure were hand cut blocks of cool gray marl and sand-tinged limestone, as was the small podium to one side. The stones and roof tiles were old, but the door and a couple decorative elements were contemporary; made by the artist Peter Rockwell, one of Rebecca’s Giogalto neighbors. Sunlight entered through the open door and the circular window Rockwell had fashioned above it but, in the otherwise windowless space, it took a moment for what I was seeing to register. A suite of seven gray paintings lining the interior three walls, each in square format although in three different sizes, mostly 50 x 50 cm plus one at 100 cm and another at 150 cm. 

The stone podium at the midpoint along the left hand wall had a basin in the middle, indicating it had once been an all-purpose altar, Baptismal font, and Holy-Water stoup. The 100 cm square panel was hanging above the podium. Its grays were cooler than those of the stone walls. The scumbled surface of this work on wood was cut through here and there by sgraffito lines, evoking the barest suggestion of a landscape, but also the marks an engraver might make on a plate. 

Rebecca has since confirmed that none of these paintings is titled. She refers to the ensemble as the chapel paintings, which identifies them in relation to the site more than to any surface, compositional, or existential properties within the works. I understand the artist’s hesitancy to give these works names. Titles always act to differentiate artworks from each other as well as to conjure associations of memory or history. The chapel paintings, then, have no need for such differentiation; they offer a collective perceptual experience for viewers, with history and environment provided by the location.  The twentieth century course of abstract painting is guided by an ideal of placelessness; the adjectival “abstract,” after all, indicates things apart from concrete realities, actual instances, or the specificities of ordinary objects. In the cool air of the chapel, the paintings were absolutely connected to that site by virtue of their scale and every material property.  Even other paintings by Rebecca, hung in the place, would have shifted the experience away from that connection toward more mundane associations with the apparent neutrality of gallery walls. 

In the twenty or so minutes I passed in the chapel, a sense of spiritual grace arose within me; a gratitude for being in the situation created by the building, the enclosure, and the artworks that simultaneously offered testimony to their maker’s hand and fortitude while demonstrating their fealty to the place where they were displayed. I can share something of this feeling by offering a few lines from the poet Robert Duncan, “Often I am permitted to return to a meadow/ as if it were a scene made-up by the mind,/ that is not mine, but is a made place,// that is mine, it is so near to the heart . . .”

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On Rebecca’s website, the artist offers this description of her interests: “Mark-making and line are generally more important to me than color and I typically use a restrained color palette. I draw my inspiration from the . . . city . . . both as a symbol of [human] potential . . . and of the endless development that may ultimately overrun the earth.” Over time, Rebecca has made reference to the spatial, structural, and textual conditions of the urban environment in her paintings, sculpture, drawings, prints, photography, and, most recently, through stop-motion video. Rebecca’s enthrallment with, and dread of, cities has generated compelling results in her studio. Cities aren’t her only subject, but some terms of expressing urban conditions: wall, street, void, speed, montage, signs, and upwardness, apply as well to Rebecca’s studio production. 

In her Obsessive Series of drawings on paper and panel, inked networks collapse space into ever more complex arrays in which architectural specificity gives way to references to crystalline formations, electrical diagrams, and cartographic fictions, all mashed together in apparently aerial views. No real urban setting is as dense as these drawings suggest, but how about imaginary cities? In Italo Calvino’s Invisible Cities, the novelist offers eleven categories of literary polis: Cities and Memory, Cities and Desire, Cities and Signs, Thin Cities, Trading Cities, Cities and Eyes, Cities and Names, Cities and the Dead, Cities and the Sky, Continuous Cities, and Hidden Cities. Some categories appear more frequently than others, but the textual vantage points bring us into all of them. As Calvino notes in the book, “Cities, like dreams, are made of desires and fears, even if the thread of their discourse is secret, their rules are absurd, their perspectives deceitful, and everything conceals something else.” I could borrow Calvino’s words to describe Rebecca’s cityscapes and not have to force any of them to fit what we see. 

Similarly, in Rebecca’s Wall Series paintings, architectonic references made up of inscribed lines, collaged text fragments and outlined forms using templates, are situated within fields of radiant color. A viewer’s impression is of cities emerging from alien atmospheric mists.  Earlier studio productions in paint, or in printmaking—notably her several Bad Prints, Part 2—conjure up an image of Rebecca as a kind of surveyor of the city, whose tools of measuring distances and angles are applied to existential as well as physical attributes of urbanity. The diversity of mediums Rebecca employs bring their salient characteristics to the space and time of looking at the city-as-subject emergent in every fashioned thing. My referencing the surveyor ought not to obscure the cartography so present in many works. The diagrammatic references in Rebecca’s work often correspond to snippets of the actual layout of Florence or other Tuscan hill cities, but without the names of streets or edifices, these partial maps describe routes that are impossible to follow. There is a final distinction I wish to draw, that in her many treatments of urban space there is also an inkling of the city’s multiple scales of time, simultaneously ancient and contemporary.  Brushworks, incisions, viscosity; all are means for Rebecca’s surfaces, worked until the texture is just about lost, to bring us toward a past that becomes paradoxically present in the time it takes to scan the work. 

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The love of material animating Rebecca’s art has adopted a new guise in her most recent endeavor, the stop motion animation, River of Consciousness, she made for her February 2021 virtual opening at Webster University’s Cecille R. Hunt Gallery (St. Louis, Missouri). The exhibit, originally scheduled for November 2020, was a casualty of pandemic restrictions on travel, but Rebecca taught herself how to use stop motion photography, in concert with apps (Garage Band for sound; imovie for editing), and in collaboration with artist and musician Justin Randolph Thompson, to make this digital video.  

In four stop-motion vignettes, myriad small painted sculptures make appearances onscreen, starting with a single object and multiplying while we watch. Rebecca had intended for the sculptures in the installation to be handled and moved around by visitors. Since this interactive concept could no longer take place, Rebecca used video to record the movements. At different times during the filming Rebecca placed a few sculptures on a pedestal or else created large arrays of them on the floor. More and more of these building structures appear here, then instantly reappear elsewhere, in the quickly accumulating aggregation. At other times the camera moved among still arrangements of the sculptures, and Rebecca herself appears now and again, recorded as she moved elements around to make tableaus. Rebecca also filmed her own paintings and drawings and, at several points, projected that filmic record onto the arrays of sculptures. All the while, Justin Randolph Thompson’s beguiling electronic score added its pulse to the experience.  

Another section of River of Consciousness is more documentary in structure. This episode shows Rebecca speaking to her state of mind and to the memory of listening to the audio book of Oliver Sacks’s The River of Consciousness while in her studio, a textual inspiration she acknowledges in her title. Rebecca speaks of the small epiphany she had while listening to Sacks: that memories are layers; stratifications of sensory inputs that create the impression of continuity.  Sacks’s descriptions of the layers of memory resonated with the material layering that had long been important to Rebecca’s artmaking, and in the video she makes a comparison between those methods of making and the layers of space, distance, and point of view that make up a city. The video adds the dimension of time to this experiencing.

Ultimately, River of Consciousness serves as a record of every aspect of Rebecca’s artistic identity to date. Late in the video she describes how making it took her work “into a new stage of evolution,” but the end of the video document is also a threshold for the artist and her viewers to ponder what vistas come next in time and mind. We are all citizens of such cities.Rebecca Olsen: "Il fiume della coscienza"

Written by Buzz Spector, Translated to Italian by Pietro Gagliano’